mercoledì 11 novembre 2015

Fotografie (che la terra vi sia lieve) -2-

Il giorno dopo il mio primo "disastro" ostetrico (il quale mi ha provocato la prima botta di timore di non essere all'altezza), la replica: solo che stavolta non e' stata colpa di nessuno. Un altro parto ostruito, e stavolta il battito cardiaco fetale l'avevamo sentito in tre. C'era, quindi si vola in Sala Operatoria sperando di poter fare qualcosa. Madre giovanissima anche questa, 20 anni, secondo figlio. Una ragazza stupenda, alta, sottile, lineamenti delicati due gambe affusolate lunghe un chilometro l'una, una massa di treccine piene di piccoli fiocchi: fossimo stati nel mondo occidentale, avrebbe potuto stare tranquillamente sulla copertina di una rivista di moda.Estrazione difficoltosa del feto...alla fine nasce. Una bimba, polimarformata, curvatura a S della spina dorsale, fissità della nuca in iperflessione, faccia appiattita, mani e piedi torti, labiopalatoschisi, brevità del collo, torace "a botte". Non ha pianto, emetteva uno strano verso come un lamento....la suora piu' anziana, Maria, ha lasciato il tavolo operatorio per venire a vederla. "secondo te cos'e'?". E che ne so? Potrebbe essere qualunque cosa, di sicuro una malformazione complessa scheletrica con coinvolgimento di quasi tutti i segmenti ossei, e probabilmente altro. Chissa' a livello cardiopolmonare e renale cosa c'era. L'unica cosa che mi venne in mente, al momento, era la Trisomia 18, che puo' causare malformazioni multiple, o la sindrome "du cri du chat" (un'anomalia genetica rara che come caratteristica piu' riconoscibile ha il pianto "lamentoso", simile al miagolio di un gattino, causato dall'ipoplasia delle cartilagini della laringe). Nessuno (tantomeno io) ha avuto il coraggio di dire nulla alla madre (io avevo la meravigliosa scusa che l'arabo non lo parlo...e per fortuna la madre non spiccicava una parola d'inglese). sono rimasta li' con quella cosa in mezzo ai telini che gemeva, la madre che fissava il vuoto, poi qualcuno mi ha detto di portare in reparto la bambina per pesarla e consegnarla ai parenti. Sono scappata molto  volentieri dalla Sala Operatoria, solo che fuori c'erano ad aspettarmi la madre della sfortunata neomamma, un altro paio di donne con bimbi piccoli (probabilmente zie, il fratellino, i cuginetti...), altri parenti o vicini...e tutti hanno cominciato a seguirmi per vedere la neonata. Non ho detto nulla, l'ho appoggiata sul tavolo, gliel'ho mostrata. Nessuna reazione. Le ho messo la pomata antibiotica sugli occhi, le ho dato la vitamina K (procedure usuali per tutti i neonati) mentre la famiglia continuava a guardare in silenzio. Qualcuno mi ha dato dei lenzuolini puliti e coloratissimi per avvolgere la neonata. Poi la nonna ha preso una copertina di cotone ed ha portato via la piccola. Tutto in silenzio. Poco dopo e' tornata la madre dalla Sala. L'abbiamo messa a letto, la bimba era nella cullina in fondo al letto, continuava ad emettere il suo strano verso. La stanza dove stanno le donne operate ha 5 letti, quel giorno c'erano altre 3 donne cesarizzate nei giorni precedenti. Con i loro bimbi e la solita masnada di parenti che non manca mai. Tutto molto chiassoso. Tranne l'angolo del letto 22, dove la madre continuava a fissare il vuoto, la nonna sedeva in silenzio, la neonata continuava a lamentarsi. Una scena assurda. Dopo un paio d'ore ho visto una coppia di donne portare via il fagotto con la copertina di cotone. Mi sono affacciata nella stanza: la madre continuava a fissare per aria, la nonna le era sempre seduta accanto, la cullina era vuota. Intorno la solita confusione festosa.E questo era il secondo giorno. Sempre meglio.

lunedì 9 novembre 2015

Fotografie (che la terra vi sia lieve) -1-

Una delle cose che temevo maggiormente, prima di arrivare qui, era la mia possibile reazione al contatto quotidiano con la morte.
Una premessa: lavoro in ospedale da quasi 30 anni, Ne ho vista di gente morta. Non tantissima, ho quasi sempre lavorato in ostetricia, e per fortuna (no, non per fortuna, per politica rispetto alla maternità ed avanzamento scientifico nell'assistenza materno-infantile) non e' un posto legato alla morte. Non in Toscana, dove i numeri relativi alla mortalità materno-infantile sono infimi.
Ma in Africa sono molto diversi. E non ero molto sicura di saper affrontare la quotidianita' della morte che da queste parti e' legata alla gravidanza ed al parto.
Il primo assaggio l'ho avuto subito il primo giorno in reparto: un taglio cesareo in madre primigravida, 19 anni. "Obstructed Labour", come chiamano qui tutti i parti che per qualunque motivo non vanno avanti. La diagnosi precisa non e' cosi' importante, che sia per bacino , malposizionamento della parte presentata, sproporzione feto-pelvica, distocia meccanica o dinamica, poco importa: la sostanza è che questi parti rimangono bloccati, e quindi si va in sala operatoria. Possibilmente quando il feto e' ancora vivo. Ora, l'unico modo per accertarsi che un feto sia ancora vivo e' di sentire il battito cardiaco fetale con un qualche strumento. Qui ci sono solo gli stetoscopi ostetrici, specie di trombette di legno che le ostetriche hanno usato per qualche secolo, e che io, proveniente dal fantasmagorico mondo degli ultrasuoni con tutto l'ambaradan di cardiotocografi ed ecografie, non ero proprio abituata ad usare. Mi sono messa d'impegno per sentire il battito fetale, quella mattina, e mi sembrava proprio di averlo sentito. Quindi era tutto pronto per un'eventuale rianimazione neonatale, sperando non ce ne fosse bisogno. Poi invece, aperto l'utero, appare un bel sacco amniotico ripieno di melma verde. Si rompe il sacco, ed ecco un gradevole effluvio di morte. Estrazione del feto, macerato, verdognolo, decisamente morto. Ci sono rimasta di sasso. "Credo che quello che avevi sentito era il battito materno", mi dice Marianna, una delle suore medico che lavorano qui: si, credo anche io, un battito materno accelerato, decisamente (come puo' succedere sotto contrazione), un errore da principianti, ma cosi' e' andata. Bene, si comincia male. 

giovedì 5 novembre 2015

Comunicare

Per piu' di un mese la rete Internet in questa citta' e' morta. C'e' un unico gestore, Zain SSD, che vende chiavette per computer. Due tipi, da 150 pound/mese (2 GB) o da 300 pound (4 GB). Quando andai a comprarla, avevo in tasca solo 170 SSP, quindi presi quella da 2GB. Me ne sono pentita amaramente, visto che, con le mie abitudini casalinghe, 2GB mi duravano si e no 5-8 giorni. Avevo in mente di prendere anche l'altra, ma non ho fatto in tempo: uno scontro militare nello stato vicino, i ripetitori danneggiati, e niente internet o telefono. Ed anche una cinquantina di morti, ma quelli fanno parte del folklore del Sud Sudan: ogni tanto un villaggio distrutto, un po' di gente ammazzata, le solite donne violentate, insomma, quotidianità africane di un paese in guerra.
Ma tutto questo a Wau, che rispetto alla guerra e' un'isola felice (e spero vivamente lo rimanga), non si vedeva. Non ne hanno parlato neanche i giornali, forse qualche trafiletto in giro, magari un flash d'agenzia sulla CNN o Al Jazeera....ma nulla piu'. Noi l'abbiamo saputo dalle mail di rapporto sicurezza che l'ambasciata italiana di Addis Abeba (competente anche per il Sud Sudan) manda periodicamente agli expat. La gente di qui sicuramente l'ha saputo col passaparola, i telefonini volano (dovro' scrivere un post a parte sul rapporto totalmente delirante degli africani coi telefonini...), qualche parente morto (ma tanto qui e' normale), nessuna agitazione, nessun movimento.
E con questo stiamo stati tagliati fuori.
Ok, forse dovrei scrivere un post pure sul mio rapporto personale (abbastanza delirante) con la rete, ma qui la cosa e' diversa....essere lontani da casa e non poter comunicare col resto del mondo, per me e tutti quelli nella mia situazione, e' abbastanza pesante da sopportare.
Per fortuna il mio telefono ha continuato a funzionare per tutto il periodo, solo qualche giorno di blocco, nulla di tremendo.
In questo periodo sono successe un bel po' di cose...
Ve le raccontero' con calma.
Un saluto

domenica 13 settembre 2015

Sia maledetto il Sud Sudan, sia maledetto il Sud Sudan e chi l'ama...



Il titolo e' da leggersi canticchiando sul'aria di "Maremma Amara", canto popolare toscano raccolto e fatto conoscere dalla grandissima Caterina Bueno.

E su questa canzone ed il suo significato lascio parlare il sito delle "Canzoni Contro la Guerra":

"Il fatto è che Maremma amara o Maremma, Maremma, come sovente vien chiamata) non è affatto una canzone antichissima. Risale, pare, ai primi anni del diciannovesimo secolo, quando, dopo la prima bonifica medicea settecentesca, si cominciò a parlare di bonifica a vasto raggio e a progettarla sotto il Granducato lorenese. Le terre maremmane, con la loro particolare conformazione, erano fertilissime; ma erano paludi, malsane e pericolosissime. Il regno della zanzara anofele e della malaria; e non è un caso che il termine malaria, ovvero “mala aria, aria cattiva”, dall'Italia (e in particolare dalla Maremma) si sia diffuso in tutto il mondo. Si dice “malaria” in inglese, in francese, in tedesco, in giapponese, in nepalese, in tutte le lingue del globo; ci sarà un motivo. L'azione del Plasmodium falciparum, veicolato dalla zanzara anofele (“anofele” significa “inutile”, ἀνωφελής), è anch'essa un simbolo storico della Maremma e di tutte le maremme italiane.





 Lo sfruttamento agricolo della Maremma toscana è pure, e per ovvi motivi, abbastanza recente: risale a non prima del XVII secolo. Fu allora che la Maremma, terra assolutamente selvaggia, incolta e desolata d'esseri umani, nacque, al tempo stesso, alla vita e alla morte. Divenendo terra d'immigrazione dei disgraziati rurali di tutta Italia, che i Medici vollero attirarvi sia come fissi che come stagionali con il miraggio della terra liberamente concessa (e che andò, naturalmente, a formare dei vastissimi latifondi in mano di pochi che se ne stavano belli in alto, al riparo dai miasmi). Nacque la Maremma, e nacque il maremmano, ancora oggi noto per il suo carattere particolarissimo; persino il cane della zona, il pastore maremmano, ha un caratterino che ve lo raccomando, uno dei più cazzosi di tutta la razza canina nonostante il suo simpatico aspetto da batuffolone bianco.


Sono miti, figure e storie che sembrano quasi nate antiche, verrebbe da dire. La storia pressoché eterna del disperato della terra che va a cercarne un'altra dove vivere e lavorare, e che si accorge ben presto dove sia andato a capitare. Nella terra della morte certa, della consunzione per una malattia inesorabile e per la quale, a lungo, non esistettero cure. Si dava la colpa all'aria malsana, la “mala aria” appunto, mentre era di un bacillo inoculato da una zanzara. Per questo i lavoratori maremmani furono quasi tutti stagionali, raccomandandosi l'anima a Dio. La “facies” dello stagionale in Maremma era uguale per tutti: da fantasma che camminava. Fu all'estremo di questa storia, quando nessuno più o quasi voleva andarci a lavorare e la Maremma rischiava di tornare spopolata come un tempo, che nacque questa canzone, brevissima.Due sole strofe che dicono duecentocinquant'anni di duro lavoro e di morte. E', in primo luogo, una desolata canzone d'amore cantata da una moglie, da una fidanzata, da un'amante del lavoratore andato a morire di malaria in una terra che pare spennare anche gli uccelli in volo. È una canzone di maledizione, perché chi andava a lavorare in Maremma sapeva di non tornare; pochi sopravvivevano, formandosi un carattere duro e forte che è ancora oggi caratteristica delle genti maremmane. E' una canzone che parla dell'alternativa tra il morire di fame e il morire di malaria, per farla breve. Iniziò poi la bonifica, che oggi farebbe inorridire le coscienze ambientalistiche tutte tese al giusto mantenimento delle condizioni naturali (che, in Maremma, sono peraltro uniche e sempre più minacciate da scempi vari, come recentemente l' “Autostrada tirrenica”); allora era semplicemente impossibile parlarne. Si doveva eradicare l'anofele e la malaria, e per eradicarle le paludi maremmane furono prosciugate, eliminate. Si poté lavorare in Maremma sempre sotto i soliti padroni e i soliti latifondisti, fino a tempi abbastanza recenti, ma perlomeno senza la certezza di andare a morte. Si formarono paesi e la città di Grosseto. La terribile storia dei tempi passati divenne “folklore”; e Maremma amara un doloroso canto del passato, ben presto dimenticato anche se non da tutti"



Bene, oggi la Malaria in Europa non esiste piu'. Non in Maremma, e nemmeno da altre parti. Al massimo, per noi, e' un fastidio da vacanze esotiche. Non esiste un vaccino per la malaria: ultimamente circola la notizia che ce n'e' uno in avanzata fase di sperimentazione, che sembra aver dato ottimi risultati. Ma siamo ancora alle fasi sperimentali. Nel frattempo, per dirla col Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute,

"Il continente maggiormente flagellato dalla malaria è quello africano, dove la gran parte delle aree endemiche (43 Paesi) è concentrata nei Paesi sub-sahariani e centrali, e dove l’agente patogeno predominante è Plasmodium falciparum, la specie responsabile della quasi totalità dei casi mortali per malaria (letalità). Nel continente africano predominano zone a endemia stabile, con livelli di trasmissione elevati durante tutto l’arco dell’anno o buona parte di questo: sono queste zone di iperendemia, dove i casi mortali sono concentrati nella fascia di età 0-5 anni e nei gruppi a rischio (donne in gravidanza) e dove l’elevato e continuo numero di punture infettanti conferisce alti livelli di immunità, comunque transitori (premunizione). Più rare sono le zone con malaria instabile (aree semidesertiche, altopiani) caratterizzate da brevi periodi e da debole intensità di trasmissione (zone di ipoendemia), dove la popolazione presenta bassi livelli di immunità. In queste zone la malaria può improvvisamente assumere andamento epidemico in seguito a eventi particolari (inondazioni, movimenti di popolazioni, guerre), con casi mortali distribuiti in tutte le fasce d’età di una popolazione non immune"

Quando ho cominciato a fare vaccini in previsione della partenza, e ne ho fatti una caterva, sulla malaria mi dissero che i farmaci per la prevenzione non erano tollerabili dall'organismo per piu' di 3 mesi, e che avrei fatto meglio a proteggermi con mezzi meccanici (zanzariere, abiti lunghi, repellenti ed insetticidi). Poi, parando con altri colleghi che avevano lavorato in Sud Sudan, mi sono convinta a prendere il Lariam, un vecchio farmaco con la nomea (meritatissima) di provocare effetti collaterali neurologici anche molto gravi. Ho preso la prima compressa il 10 luglio, domenica, e da allora ne prendo una ogni domenica. A tutt'oggi non ho avuto nessun tipo di problema, e spero continui. Perche' dopo aver visto cosa e' in grado di fare questa maledetta malattia, non ho nessuna voglia di prenderla.

Chiariamoci, di malaria si guarisce. Ci sono farmaci validi, basta riconoscere la malattia in tempo e partire da buone condizioni di salute, Io prima di partire avevo 16,4 di emoglobina. Un valore nella media per una donna della mia eta'. forse pure alto. Nelle linee guida per le trasfusioni di sangue, il valore considerato limite e' fra 7 ed 8, a seconda delle condizioni cliniche del paziente.

Qui in Sud Sudan ho visto bambini con 1,4 di emoglobina. Un valore incompatibile con la vita, ma gli esseri umani si adattano, e se l'anemia viene raggiunta in modo graduale, e' possibile vedere valori del genere in persone ancora vive.

Che comunque vive lo rimarranno per poco. Chi arriva ad avere valori del genere, e' una spece di fantasma che cammina (e pure male), respira a fatica, assume un colorito grigiastro da lenzuolo troppo vecchio per essere lavato ancora, vomita pure l'anima, ha dolori diffusi alla schiena, alla testa, all'addome. E poi muore, appunto.

Nelle donne in gravidanza provoca aborti spontanei, parti premature, sofferenza fetale, oligoidramnios, gravi ritardi di crescita intrauterina, morti in utero, malaria congenita.

Bene, quando ho cominciato a guardare le cartelle delle donne ricoverate per rendermi conto del tipo di pazienti dell'ospedale, rimasi veramente sorpresa dal fatto che piu' di meta' dei ricoveri era per malaria. E che quell'armadio di farmaci sconosciuti (Coartem, Chinino, Artesunate/Amodiaquine) li avrei imparati a conoscere molto bene....



sabato 12 settembre 2015

Nascere...

Già, l'ostetricia africana. Molto diversa da come me lo aspettavo, anche se qualche anticipazione, da colleghe che avevano gia' conosciuto questa realta' l'avevo avuta.
Intanto, la situazione, che si puo' riassumere in una parola: misera.
La Sala Parto e' una stanzaccia scrostata con due vecchi lettini ginecologici mezzi arrugginiti e coperti da macchie ataviche di natura non determinata (e che preferisco non determinare). Le donne partoriscono su un telo di pesante plastica verde, che dopo ogni parto viene sciacquato ed asciugato.
Se ci sono due parti in contemporanea, ed una sola ostetrica, si occupano tutti e due i lettini. C'e' un carrello con un po' di guanti, uno stetoscopio ostetrico, un apparecchio della pressione risalente al 1700 circa (magari no, ma poco dopo), uno stetoscopio, qualche siringa, qualche farmaco, uno di quei cari vecchi cestoni di metallo, che i colleghi piu' anziani ricorderanno, con le garze che vorrebbero essere sterili, con accanto una pinza in un provettone di vetro che dovrebbe servire a prenderle sterilmente. Poi c'e' un armadietto di legno con sotto un po' di teli piu' o meno puliti (la lavanderia e' composta di due donnine che lavano a mano con un sapone non ben definibile e poca varechina....) ed i pacchi per i parti in due cestoni di ferro. I pacchi per i parti sono composti da un telino grande che contiene una bacinella reniforme, una ciotolina, due klemmer, una forbice da cordone, una da episiotomia, un portaghi ed una pinza anatomica, piu' un po' di garze e tre telini piccoli. Devo dire che la soluzione dei pacchetti sarebbe anche funzionale, se solo i ferri non fossero avanzi di avanzi di chissa' quale ospedale europeo che li ha dismessi ma prima che buttarli via li ha mandati in Africa. Per carità, meglio che nulla...ma la differenza fra paesi ricchi e paesi poveri si vede molto bene. Completano l'attrezzatura di Sala Parto un aspiratore per i neonati (anche questo piu' o meno giurassico, ma funziona) ed un concentratore di ossigeno (questo sembra un po' piu' moderno, forse l'hanno mandato qui dopo che in tutti gli ospedali europei e' arrivato l'ossigeno centralizzato, o perlomeno le bombole...). Poi, in un angolo, ci sono dei grembiuloni di plastica di un bel colore arancio stinto (per non sporcarsi troppo) e delle galosce bianche. Li' per li' non ho capito cosa se ne facessero delle galosce, temevo qualche alluvione periodica. Poi invece ho realizzato un particolare: le divise degli operatori.
L'ospedale non fornisce divise, ognuno raccatta qualcosa: ho visto divise dai colori piu' improbabili, modelli e taglie fantasiosi, e spesso le etichette con i nomi ed i presidi che le hanno prodotte; nomi italianissimi, presidi ospedalieri del Veneto, del Trentino, dell'Emilia ecc. Ovviamente, le scarpe non sono comprese. Ed in un paese cosi' caldo, le scarpe sono proprio l'ultimo dei problemi. Praticamente tutti vivono in infradito o sandali, ho visto pochissime scarpe propriamente dette. Gli africani, poi, come molte altre popolazioni, gli ingombri ai piedi se li tolgono appena possono e stanno scalzi. Quindi, quando per terra c'e' un miscuglio di sangue, liquido amniotico, piscio ed altro, le galosce sono molto utili.
Fanno eccezione a questa cosa delle divise gli studenti: A Wau esiste un'università', l'unica, a parte Juba, di tutto il Sud Sudan Ci sono corsi triennali di infermieristica ed ostetricia, e gli studenti hanno delle divise propriamente dette, verde scuro per gli studenti infermieri, rosso vinaccia per gli studenti di ostetricia. Ma le scarpe, proprio, non fanno parte della divisa, quindi si vedono ragazzi circolare con le cose piu' assurde, scarpe a punta di cuoio forse un tempo eleganti, ballerine, sandalini decorati, le immancabili infradito....vabbe', Io mi ero portata delle belle divisone verdi da Sala Operatoria ed i miei zoccoloni Birkenstock da battaglia; una delle mie idee migliori.
Una cosa che mi ha colpito e' che moltissimi degli operatori e degli studenti sono maschi. Studiare e' sempre una cosa piu' da uomini che da donne. Un'altra particolarità degna di nota e' che pure gli studenti infermieri devono impratichirsi sui parti. Ed in un paese dove di personale formato ce n'e' una quantita' minima, e dove questi ragazzi si ritroveranno a lavorare da soli, in villaggi sperduti lontanissimi da qualsivoglia presidio a distanza ragionevole, mi sembra piu' che giusto. Subito il primo giorno ho visto uno studente infermiere assistere un parto in una primipara, farle l'episio, e ricucirla molto meglio di quanto sapessi fare io. Se gli raccontassi che da noi sono i medici a suturare le lacerazioni e le episio, probabilmente penserebbero ad un attacco di follia....vagliela a spiegare la realta' italiana: qui di medici ce ne sono 2, Maria e Marianna, e prima di chiamarle deve crollare il mondo.
Una nota a parte per l'armadio dei farmaci, che si trova bella stanza delle Ostetriche: Non ci sono moltissimi farmaci (ma va'?), tanti antibiotici, vitamine, antidolorifici, antispastici, qualcosa per l'ipertensione, ed una lunga sequela di farmaci che non avevo mai sentito nominare. O meglio li avevo letti, ma mai visti in Italia. Ma in Italia (e nel resto d'Europa), non abbiamo la patologia che qui miete il maggior numero di vittime: la malaria.
E qui andra' apero un capitolo a parte.

martedì 18 agosto 2015

Wau

L'arrivo a Wau e' stato come me lo ero aspettato, anzi, quasi meglio.
Dopo la terrificante partenza da Juba (che voi siete abituati agli aeroporti con dei bei terminal ed uno schermo in cui scorrono i voli con indicazione di volo, gate di partenza, orario e tutto il resto, vero? Povere stelle, per sentirvi davvero in Africa Nera vi ci vuole l'aeroporto di Juba: uno stanzone stipato all'inverosimile, 30 gradi, e un tizio che ogni tanto si affaccia dalla porta ed urla in un inglese da barzelletta che parte il volo della tal compagnia per il tal posto. Se non siete sicuri di aver capito, occhieggiate i biglietti nelle mani degli altri passeggeri e se sono uguali al vostro cominciate a spintonare per arrivare alla porta. Il tutto puo' avvenire in un qualunque momento della mattinata), un volo tranquillo di 3/4 d'ora in un aereo persino decente, moderno e pulito, in cui passa addirittura un'hostess a distribuire uno snack ed una bibita. Vi sembra scontato? Mi sa che avete viaggiato troppo comodamente finora. L'aeroporto di Wau e' una pista asfaltata (una delle 3 esistenti in tutto il Sud Sudan), un casotto polveroso (arrivi e partenze), uno stanzino che sarebbe il controllo passaporti.
Ed un curioso contorno di carcasse di aerei arrugginiti abbandonate ai bordi. Altri aerei in funzione, si vede quello della FAO, un paio delle UN, uno della IRC. Se non conoscete queste sigle, cazzi vostri.
Poi ci sarebbe pure l'ufficio immigrazione, dove vado da brava cooperante, forte del mio passaporto europeo, dell'Entry Permit rilasciato in Italia e del visto gia' ottenuto a Juba a registrarmi come immigrata lavoratrice. Avrei voluto conoscere l'emozione di fare l'immigrata clandestina, invece nulla, ho tutte le carte in regola...anzi, me ne manca una, ma lo sapro' solo qualche giorno dopo in ospedale: hanno bisogno della scansione della mia laurea in Ostetricia...e telefona di corsa a casa a farmela mandare via mail.
E con questo, inizia l'avventura: prima tappa, la casa in cui abitero' per i prossimi mesi. Qui tutte le case sono composte da uno spazio piu' o meno grande racchiuso da un alto muro (quasi sempre con filo spinato e cocci di vetro alla sommita'). All'interno di questo spazio, uno o piu' edifici (dipende da quanto grande e' la casa) ed un cortile piu' o meno ampio. Questo e' abbastanza grande, con due begli alberi ed un angolo adibito ad orto dove fanno bella mostra di se' dei gioiosi fiori di zucca ed una bella pianta di peperoncini.
Nella casa, una grande cucina, un salottino, una saletta da pranzo, una verandina e diverse camere, ognuna col suo bagnetto. Non malaccio. La mia camera ha una grande finestra proprio di fronte all'albero piu' grande,  e' ampia a luminosa, mi piace subito. 
Poi la prima visita all'ospedale. Per strada, mi accorgo che Wau e' una citta' con due colori: il verde ed il rosso. Il verde della vegetazione rigogliosa che cresce un po' dappertutto, ed il rosso della terra. Perche' quella che esce dall'aeroporto e' l'unica strada asfaltata (in realta' ce n'e' un'altra, ma lo scopriro' qualche giorno dopo), il resto e' tutta terra di un bel colore rosso scuro. Credo sia ricchissima di ferro, da cui il bel colore vivace delle strade...anche le costruzioni sono tutte rosse, o meglio, qualcuna sarebbe pure di altri colori, giallo, verde, azzurro, bianco, ma la polvere rossa uniforma un po' tutto. E comunque il materiale da costruzione e' rosso, un po' meno vivace di quello della terra. L'ospedale ha la stessa struttura delle case, un alto muro e dentro una serie di edifici: la lavanderia, il punto ristoro, il laboratorio, la chiesa, i reparti: ogni reparto un edificio diverso: la Maternita', la Pediatria, la Medicina, la Chirurgia ed il "Theater", che non e' un teatro, e' la sala operatoria. In mezzo, una serie di vialetti in cemento, parecchi alberi, tanta terra rossa. Ed una quantita' impressionante di gente che bivacca fra gli alberi, famiglie con bambini, anziani, cucine da campo, tegami, fornelletti a gasolio, stuoie, tappeti, sedie...una cosa che fa sembrare l'ospedale una sorta di spazio attrezzato per allegre scampagnate familiari. 
E quindi faccio la conoscenza col reparto Maternità. Stanza delle ostetriche, medicheria, magazzino-spogliatoio, un corridoio affollato di gente, 3 stanze degenza: due stanzoni a 10 letti (uno per le partorienti e le puerpere, l'altro per le patologie in gravidanza) ed una stanza piu' piccola a 5 letti: ci stanno le donne che hanno subito un Taglio Cesareo. Le ultime 3 stanze del corridoio sono la stanza dell'ecografo (l'unico in tutto l'ospedale) e due stanze con due lettini ginecologici: sono le salette visita-travaglio-parto. 

E con questo finisco la mia visita conoscitiva. Era lunedi' 27 luglio 2015: il giorno dopo avrei fatto il mio ingresso, con la divisa verde delle Sale Operatorie del CTO e le ciabattone rosse comprate in un campeggio in Slovenia, nel mondo dell'ostetricia african-style.

giovedì 13 agosto 2015

..e Africa sia.

Fra ninnole e nannole, sono arrivata qui da quasi 3 settimane.
Non posso dire che il tempo sia volato, anzi: ho assaporato ogni giorno con una lentezza straordinaria, ed ora sono in una strana fase in cui mi sembra di essere qui da una vita, ma di non avere ancora capito una mazza di questo posto e di sentirmi catapultata nell'esistenza di qualcun altro.
L'arrivo e' stato tranquillo, una sosta di 4 giorni a Juba, citta' un po' strana che spero di aver occasione di conoscere meglio, e poi l'arrivo a Wau dopo un delirante passaggio dall'aeroporto di Juba.
Merita un discorso a parte, l'aeroporto di Juba: se all'arrivo mi era sembrato un non-luogo abbandonato e disperso, una via di mezzo fra uno scenario post-atomico ed un campo abbandonato (l'arrivo passando fra vecchi aerei in condizioni piu' o meno pietose in una baracca polverosa con passaggio in una tenda che sarebbe la "postazione sanitaria" in cui controllano la temperatura, non ho capito a che scopo, visto che qui qualunque febbre la classificano come malaria e dovesse arrivare davvero l'Ebola vorrei sapere che s'inventano, e' stato spettacolare...), all'andata e' stato il delirio.
Check-in alle 6,30, ma mi avvertono che l'aeroporto apre alle 7. Vabbe', arrivo alle 6,45 e ci sono file di gente con i bagagli piu' assurdi. Mi avvertono che ogni fila e' per un volo diverso. Cerco la fila per Wau e aspetto...alle 7 apre l'aeroporto, ed e' il finimondo.
Siete mai stati in fila per un concerto di gran richiamo? Con gente che urla, spinte, gomitate, botte, ecc ecc.
Ecco, la stessa..con l'aggravante di bagagli e pacchi da tutte le parte, 30 gradi nonostante fossero le 7 del mattino, e l'assoluta mancanza di indicazioni. E due valige da 25 kg da far arrivare.
Un tizio grande e grosso mi vede totalmente smarrita e mi agguanta. Alla fine fara' tutto lui, peso ed imbarco dei bagagli, sistemarmi nella direzione giusta, alle 8,30 riesco ad entrare nell'area "partenze". Il bagaglio extra costa 450 pound sudsudanesi, ne consegno 500 al tizio sperando vada tutto bene. Sono arrivata con le mie valigie, e non ci avrei scommesso un soldino bucato.
E quindi, il 27 luglio alle 11,20, sono arrivata a Wau.
Il resto ve lo racconto con calma.

martedì 21 luglio 2015

Partire (pronti, 50 e via!)

C'e' sempre qualcosa da fare quando si lascia una casa.
Cambiare residenza, per esempio...
Oggi, dopo piu' di 20 anni, sono tornata residente nella casa dei miei genitori.
Oggi, 21 luglio 2015, giorno del mio 50° compleanno.
Probabilmente c'e' un significato in tutto questo....ci pensero'.
Strano tuffo nel passato, ma per proiettarsi nel futuro bisogna prendere la rincorsa.
Mi spiace lasciare Calenzano: e' un posto molto carino, piccolo, simpatico, pieno di vita, senza i problemi delle citta', ma non e' un paesotto di provincia.
Firenze, negli ultimi anni, e' diventata invivibile. Insopportabile, opprimente, tronfia del suo grande passato, con un presente miserabile e nessun futuro a cui guardare che non sia "spennare turisti e studenti".
Calenzano ha pure l'unico sindaco e l'unica giunta della Piana che reputo persone dignitose.
Ok, PD anche loro, ma se guardo al PD di Firenze, o a quello di Sesto Fiorentino, di Campi Bisenzio od altro...beh, c'e' un abisso. (non che ci voglia molto, per carita').
Quello nazionale non lo nomino neanche: preferisco.
Ci sono 4 Case del Popolo nel giro di 2 km, dalla mia (ormai ex) casa di Calenzano.
Ed una di queste qualunque toscano l'ha vista in un vecchio film di un vecchio uomo che ora e' diventato qualcos'altro ed un uomo ancora piu' vecchio che non c'e' piu'...ed e' meglio cosi' per lui (ma non per noi).
No, perche' se uno si ricorda Berlinguer, e poi vede Piermatteino, il fegato e lo stomaco fanno male. Parecchio male.
Ma come diceva un altro vecchio amico, "voglio pero' ricordarti com'eri, pensare che ancora vivi"

Brutta bestia i ricordi...

Dibattito alla Casa del Popolo di Calenzano

Noi siamo quella razza...

Quando Benigni era Benigni.

L'abbraccio

Ok, la pianto senno' si finisce domattina e mi sto gia' incazzando abbastanza.
Torniamo al presente: domani e' un altro giorno.

martedì 14 luglio 2015

Prepararsi

Prepararsi ad un viaggio è un'arte che non ho mai imparato.
Sono abituata a viaggiare, ho fatto numerose vacanze e pure qualche viaggio di lavoro piu' lungo.
E' uguale, che si tratti di un fine settimana a Londra o di 9 mesi in Africa, arrivo sempre del tutto impreparata, dal punto di visto delle aspettative.
Dal punto di vista pratico, invece, alla fine ci ho fatto l'abitudine.
Prenotazioni, indicazioni, guide, bagaglio...
Gia', il bagaglio...che dramma.
Sono una di quelle che potendo si porterebbe dietro la casa, il quartiere, gli amici, il negozio di fiducia...
E invece, alla fine, sono riuscita a tagliare, tagliare sempre di piu', dai mostri dei primissimi viaggi alla valigetta Ryanair con cui stare via 3 settimane di adesso.
Ora, per questo viaggio parliamo di 9 mesi, in un posto fuori dagli itinerari turistici (ma ben dentro a quelli dei paesi a rischio, da evitare assolutamente), e con la prospettiva di dover svuotare la casa in cui ho abitato per 5 anni.
Il tutto da riassumere in due bagagli da max. 23 kg l'uno.
Bene, intanto ho comprato due valigie nuove.

Allegre e colorate, leggere, robuste, con 4 belle ruotine che le rendono facili da trasportare.
Comprate ai saldi, 135 euro per tutte e due.
E questa era la parte semplice.

Domani comincera' la parte dolorosa: cosa metterci dentro.
Per fortuna, domani e' un altro giorno.


martedì 7 luglio 2015

Mi sto facendo un po' di spazio..

La mia Africa comincia in garage. E non e' mio neanche quello.
E' il garage nel quale, 5 anni fa, quando sono arrivata in questa casa, ho scaraventato di malagrazia tutto quello che ero riuscita a portar via dalla casa che era stata mia per 14 anni.
Scatole buttate alla rinfusa, piene di roba improbabile, sacchetti dal contenuto incerto, libri e videocassette e fumetti e quaderni ed appunti e fotocopie buttati per terra, fotografie, riviste, pezzi di oggetti che facevano parte della mia vita, mescolati a cose che gia' abitavano quel garage, frammenti doloranti della vita di qualcun altro.
Quel garage e' stato per 5 anni un mostro che non ho voluto affrontare.
Ed adesso, invece, cacciata anche da questa casa, devo combattere questa battaglia.
In altre cantine polverose ci sono altri pezzi della mia vita che aspettano crudelmente di presentare un altro conto da pagare, ancora piu' antico ed incancrenito di questo, ma non e' il momento di affrontare tutto insieme.
Un passo per volta.
Un respiro ed un passo.
Un momento di riposo ed un altro passo.
Un giorno di lavoro ed un ulteriore passo.
Ogni grande viaggio comincia con un piccolo passo.
Da Calenzano (Firenze) a Wau (South Sudan).

Primo passo: il garage.